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Gli esseri umani producono e abbandonano in natura tanta, tantissima, troppa plastica. Per la precisione, circa 311 milioni di tonnellate l’anno, delle quali tra 4,9 e 12,7 milioni finiscono nei mari e negli oceani.
Una situazione gravissima, destinata a peggiorare. Se non si interverrà quanto prima per migliorare lo smaltimento dei rifiuti nelle zone costiere e adottare sistemi di riciclo più efficienti, la quantità di plastica nei nostri mari potrebbe aumentare di dieci volte entro il 2025.

3211E4D100000578-3486167-Japanese_researchers_have_discovered_a_bug_that_eats_PET_offerin-a-115_1457630899591DAL GIAPPONE CON FURORE
La soluzione potrebbe arrivare dai giapponesi: un’équipe di scienziati del Kyoto Institute of Technology e di altri istituti di ricerca giapponesi ha appena isolato una specie di batterio, Ideonella sakaiensis, in grado di “divorare” la plastica, usandola come fonte di sostentamento e crescita, mediante l’azione chimica di soli due enzimi. La Ideonella è particolarmente golosa di PET (polietilene tereftalato), probabilmente la plastica più diffusa al mondo (se ne producono circa 50 milioni di tonnellate l’anno ed è utilizzata soprattutto per scopi alimentari – bottiglie e contenitori per cibi e bevande – ma anche per realizzare etichette, involucri per batterie, tubi e pellicole.

plastic_vortexLA SCOPERTA E LE POSSIBILI APPLICAZIONI
Si legge su Repubblica: “Il batterio è stato scovato dagli scienziati analizzando oltre 250 campioni prelevati da un sito di riciclaggio di bottiglie in PET, ed è assolutamente unico nel suo genere. In particolare, i ricercatori del Kyoto Institute of Technology, guidati da Shosuke Yoshida, hanno identificato i due enzimi chiave nella reazione di idrolisi (cioè di rottura, decomposizione) della plastica, descrivendo in dettaglio il processo. Il primo si chiama, molto banalmente, PETase, ed è secreto dal batterio quando questi aderisce alle superfici plastiche. Il secondo si chiama MHET idrolase, ed è quello responsabile della rottura delle catene di PET in molecole più piccole e “innocue”, l’acido tereftalico e il glicole etilenico. Il processo, aggiungono gli scienziati, è purtroppo abbastanza lento – la degradazione completa di una piccola pellicola in PET impiega circa sei settimane alla temperatura di 30 °C – ma, nonostante ciò, “la scoperta potrebbe avere implicazioni molto importanti per il riciclo delle plastiche, così come per lo studio dei principi dell’evoluzione degli enzimi”, come spiega Uwe T. Bornscheuer sull’editoriale che accompagna l’articolo scientifico apparso su Science. La ricerca, naturalmente, andrà avanti: gli autori dello studio hanno infatti intenzione di capire se è possibile utilizzare il batterio per isolare l’acido tereftalico e riutilizzarlo per la produzione di nuova plastica, il che consentirebbe di evitare l’uso di petrolio. Oltre che, naturalmente, comprendere a fondo i meccanismi di decomposizione della plastica, con lo scopo di intraprendere azioni corali di bonifica degli ecosistemi